venerdì 6 dicembre 2013

Le bugie di Armando.

Sui muri verde camo di quelle stanze scorrevano fiumi di odori, gli  anni vissuti con altre persone tralasciando il pensiero di poterci rimanere da solo lì dentro.
Il soffitto bianco invecchiato-sporco-uno specchio, un riflesso di loro e di lui.
Ha assorbito tutte le idee vaganti nell'aria, come fumo dalle sigarette in quei party dati per ridere di cose totalmente futili, per guardarsi negli occhi l'odio affogare le pupille e dilatarle.

Armando è stanco, infatti ormai son le 9 di sera, camminato tutto il pomeriggio. Il bar Egidio.

La porta della cucina dal lato interno ad essa piena di buchi, grandi il contorno di un pugno.
Armando sta bene.
Vuole un caffè al gusto di Abdel. E nonostante ci faccia poco caso a questo, vuole risentire l'odore che aveva quell'uomo quando passava dal corridoio con la sua fretta, le sue gambe svelte e lunghe, mentre "correva" al lavoro.
I suoi genitori erano persone proprio per bene, ordinate e composte. E lì ricorda in un quadretto appeso in soggiorno.

15.15
A palline bianche, una gonna che arriva alle ginocchia. La vide in una vetrina, rimase lì 4 minuti interi-spaccati-a guardarla. Quella gonna nera e bianca era perfetta.
I rapporti completamente sagomati con un coltello da macello. Niente anestesia, 8 anni senza una donna, il tema forse più caro, dopo aver perso anche la madre.
700 chilometri e una macchina, delle sigarette cadute sotto al sedile destro; un cruscotto impolverato da anni e -una canzone-.

Armando ha sentito e visto troppo in quella vetrina, forse troppo ormai avvelenatosi gli occhi-appannatosi la mente dalla lucidità di quel momento a cui le sue sinapsi lo avevano sottoposto, rimane lì dando le spalle al negozio, quasi come gesto di lasciare indietro.
Oggi le 14 sono già passate e il caffè gli ha fatto schifo, comunque da pensare e convincersi che fosse buonissimo, squisito; altrochè!
Armando stringe il petto e con un coraggioso sospiro torna ai principi di una strada.
Quella di casa sua.

Armando è stanco, infatti ormai son le 9 di sera.

mercoledì 13 novembre 2013

275,5 MI



Armando girovaga per il parco oggi. Convinto che una cacca di piccione sul cappello gli dovrà cadere.
Le sue Church's gli dicono di no. Glie lo dicono; che sta per piovere-che ogni nuvola oggi è piena e densa.
Convinto che oggi qualcosa di bello gli succederà e che una cacca di piccione rovinerà tutto. Lui è così.
E' così pieno delle sue espressioni. Solitario e in compagnia delle sue convinzioni e del suo male.
Abdel non è tornato. La casa è così vuota.
La voce della tv rimbomba nell'aria bianca. La radio smette di funzionare come sapesse che nessuno sta ad ascoltarla. Tutto in perfetto ordine.

Armando ha scoperto il Whisky stamattina alle 7 e zero otto. Sempre avuto in casa nella vetrinetta, mai aperto, ma tante volte contemplato. Le gocce del freddo Armando le ha guardate scendere dal bicchiere.
Le sue Church's questo gli avevano detto.

Si son fatte le 13 in punto e Armando è convinto ancora della cacca, ma niente. Intanto apre l'ombrello, perchè le sue scarpe hanno ottenuto ragione. La pioggia adora Armando ma Armando scappa.
Sotto il letto lui tiene gli album delle fotografie, pieni di polvere. Lì dentro giacciono i suoi rimorsi e le sue pene, i suoi denti stretti e il suo sangue capace di crepare quella parte di lui che Abdel era riuscito a far uscire di casa. Giace il caffè delle 14 che fra poco si andrà a prendere, giace la sua voglia di persone. Giace anche l'Essenza e l'assenza di Abdel forse, o meglio forse fra un po' di tempo: quando il rullino sarà pronto.


Sarà pronto?



(ti stai privando del quotidiano e di quello che la vità può darti
ti esprimi in facce straziate mentre ti parla e non puoi farti vedere comprensivo
puoi solo dimostrare la parte che preferisci, quella dura che solo il sangue e i suoi legami possono crepare)


giovedì 24 ottobre 2013

275 MI

Foto di Matteo Mangherini

Le due del pomeriggio. Appena arrivato giù, fuori dal portone del suo condominio.
Finisce di abbottonare il cappotto e dà una pacca strisciata per sistemarselo addosso.
Alza la testa verso avanti, dritto a lui. Dà un'occhiata panoramica alla piazza muovendo solo gli occhi, scosta poco poco la testa verso la sua sinistra.
Il bar, il caffè. Il giornale e i vecchi. Il cielo cattivo e grigio. 
Con i guanti alle mani comincia a percorrere, spedito e diretto, il tratto verso il bar Egidio, arriva.
Entra aspirando le labbra tese, tenendo i denti stretti fra di loro, le sopracciglia alzate e leggermente infastidite; aveva appena preso il caffè di sopra, nella sua cucina-nel suo appartamento. 
Il caffè. L'agitazione. La vergogna.
Ordina un caffè macchiato e toglie i guanti, li mette nella tasca destra. Aspetta pensieroso e indifferente appoggiato al bancone. 
Il caffè arriva ed è come se, prima di berlo, portandolo alla bocca, spuntasse una nuvoletta -"Coglione il latte che mi hai fatto mettere non mi addolcisce"- beve, strizza gli occhi e il disgusto gli trasforma il viso, non aveva messo lo zucchero.. La ferita nella parte interiore della guancia gli brucia, tanto da stringere i denti e le palpebre. L'amaro del caffè gli asfalta lingua e gola e tossisce. E dire che il caffè lo aveva già preso prima e aveva anche appena finito di pranzare, ma Armando è testardo e pignolo. E invece no.
Nasconde, fugge, si siede, sente. Poi non trova più niente.

Ogni giorno costretto ad uscire dalle mura bianche e verdine camo del suo appartamento-nel quale affitta la stanza più grande a un senegalese che 4 mattine su 7 esce alle 5.30 del mattino dirigendosi al lavoro in fabbrica. La faccia dell'affittaro senegalese è scurissima, ma non di pelle s'intende. L'unica parte bianca sul viso di Abdel che Armando ha visto è quella delle palle degli occhi, mai un sorriso, qualche parola solo per gli accordi sui soldi riguardanti la stanza affittata. Mai uno scontro o un litigio. Orari perfetti, soldi sempre puntualmente giusti e mai un rumore di troppo. Armando ne è quasi deluso e stupito e per questo ha escogitato e sviluppato questo uscire tutti i pomeriggi in cerca di motivi di discussione. In fondo la sua azienda procede bene e problemi economici non ne ha, in più un gruzzolo ereditato da pochi annetti "grazie" ai genitori morti.
Abdel invece, a quanto pare, ha quasi "niente". Ha quella stanza, quel lavoro e una marea di palline con la neve e souvenir provenienti da ogni dove, il suo comodino accanto al letto è un tamburo e, direttamente sopra-attaccato al muro, ha anche due rametti con delle foglie secche appesi all'ingiù.
Mai vista donna entrare in quella stanza, mai visto un amico accompagnare alla porta d'ingresso. Solo Abdel e il suo passo pesante e alto.
Armando non crede possa andare sempre tutto bene e anche quando ha provato a guardarlo male, l'uomo senegalese non ha mai posto malamente il piede, anzi risposto sempre educatamente e sicuro di sè. Senza mai spiegare in modo eccessivo o inesaudiente, Abdel è Essenziale.

Armando esce ogni pomeriggio a cercare le virgole messe al posto sbagliato - ma quel pomeriggio fu totalmente inutile varcare quella soglia. Pieno di punti di domanda esce dal bar e gira l'angolo in Viale dei Gigli, dove all'altezza della seconda traversina incontra il suo affittaro. Non lo saluta.
Continua avanti, guardandosi il marciapiede scorrere come un tapis-roulant sotto le sue scarpe inglesi. Church's, pagate 445 euro. Quelle le accetta benissimo, sorride anche, le adora.
Così camminando a rullo sul marciapiede evita le buche riflettendo su Abdel, se lo cacciasse di casa non avrebbe più motivo di uscire il pomeriggio. Pensa a questo.
Pensa che forse Abdel è un po' la sua salvezza. Pensa che forse quando tornerà a casa dovrebbe innescare un dialogo. Il tutto guardando sempre in basso, percorrendo la stessa linea.
Entra in un negozio di lusso e classe, con le mani inguantate in tasca e il cappotto sbottonato, le mani dentro alle tasche sono di peso morto, creando uno spazio tanto largo quanto insoddisfatto.
Armando ha il respiro mozzato anzi trattenuto e quando lo rilascia, insieme al respiro, esce anche la sua voce, in un suono spezzato e allibito.
Così, lentamente-e anche il suo sguardo è spezzato e allbito-si gira sullo stesso punto in cui si era fermato ed esce, ormai, con quell'aria sconfitta di quando si sa che nulla è più efficace dell'uscire dalle proprie formalità e abitudini.
Uscito cammina veloce, con lo sguardo basso, arrabbiato e deluso, con le sue labbra stanche e mezze aperte, verso la fermata dell'autobus.
Armando, che è sempre uscito a piedi o con il Mercedes classe A, prende il bus. Ha capito.
Abdel se n'è andato.
Tornato a casa Armando controlla la stanza del senegalese e la trova-come aveva premonito-vuota.


giovedì 10 ottobre 2013

brezza 1963

Si scrolla abilmente il cappotto
panno curato-vintage-del 1963
ha i capelli medio corti e una frangia
guarda il pavimento mentre scrolla
con gli occhi un po' qualunqui segue la polvere 
cadere giù sul pavimento liscio.
Linoleum-parquet, salotto
nicchie dipinte sui muri.
La polvere risalta ai suoi occhi
--si sposta, scrolla di nuovo--
tanto su quei quadrati neri della cucina,
che le sembrano tanto neri.
Un'ora prima.
In giro per le strade
il freddo saliente dalla pavimentazione
le infliggeva la schiena;
finto male fisico-causa musiche
su un walkman per i tape
causa nicchie dipinte sui muri
causa troppi sguardi 
sguardi interpretati.
E' una colonna.
Non si rompe, non parla, rigida liscia e fredda.
Lei veramente si scusa per tutto quello che ha fatto
quella donna veramente io la conosco
un po' dell'aria che espira io la riconosco
piu che altro le riconosco il modo 
e le porgo il cappello e il mio sguardo umile.
A lei quei quadrati del linoleum della cucina 
sembrano tutti neri, i bianchi sono il vuoto.
L'ho letto nel suo taccuino
quello che tiene nascosto sotto alla seduta centrale
del divano.
Lei so che mi parla lì.
Anche se Lei, no, Lei non lo sa.
Parla della luce areosa
entrare dalla finestra alla sua ancora sveglia ora,
quando io mi sveglio per andare al lavoro-
Lei va a dormire.
Chiude il portone con la mandata, poggia le chiavi.
Guarda il soffitto e le nicchie dipinte.
Manda giu. Deglutisce.
Ci prova a capire e io lo so.
La vedo dalla finestra che ci prova.
Che si incazza con le tazze. 
Che il thè finisce sul linoleum.
Insieme alla polvere del cappotto nuovo.
Il suo taccuino è verde scuro, identico al divano
ormai schiarito dalla sua figura
leggera e lucente, come quando 
si appoggia al muro
e scivola con i piedi, 
per il pavimento troppo liscio. 
Io sono sulle sue piantine, sono brezza. 



domenica 14 luglio 2013

scotch biadesivo/mali

Leggi di nuovo.
Leggi il nuovo.
                                                                                leggi

Giro la testa nello stesso momento in cui la canzone finisce.
Scotch biadesivo. 
                                                          caldo scollante/testa disarmante
diverso stavolta
Ci provo.
                             l'ho detto che a volte il vero viene fuori
Rimango ferma sul ciglio del mio balcone. Musica vien da dentro. Sentire strumenti.
      analizzo tremenda la sera, il tramonto mi cade addosso
Scrivo apposta, ho gli schemi. Ho i disegni. Ho l'inchiostro. Ho lo sclero disegnato, visione olografica.
Olografica. Vorrei uno dei miei sei sensi potesse varcare limiti di corpo umano.
Appena riesco a guardare.
       a caso, alla cazzo, somewhere.. forse non sono più io
Mi copro la bocca con la mano, sono sconfitta e stupita.
                                                disarmante scoprire fragiltà
 disarmante urlare il nulla davanti, vieni qui e raccoglimi, vai
                                una canzone incornicia lenta il mio viso
    arrivi veloce qui quando piango, arrivi veloce qui quando
                   ci sono, ma è solo "lo vorrei"; fosse così vorrei 
fosse che mi offri birra/che sali le scale versandola
luce del cazzo soffusa, odio dolce
odio che accarezzi e poi baci
sangue dolce e lenisce le stesse ferite
la stessa ferita
cura
cura
cura
C'è da dire che il ciglio del balcone culla, che gli angeli sono neri con la faccia da topo e volano fra gli alberi.
C'è da dire che sono da sola nel paese dei vecchi, il Signor Nessuno viene ogni sera con robe che non voglio
invadenza a tratti continui
le mani ferme scorrono le gambe
cursori tangibili e pensieri che qui fanno ombra, punto



domenica 7 luglio 2013

Roma Termini

Passa un mese. Passeran due mesi e io scenderò a Roma Termini con due signore con le quali condivido una casa a Ravenna provincia. Sento già le loro risate false in stile chiwawa da spettegolezzo domestico. Battute tristi e brutto trash che a una giovane frustrata non fan ridere.
Nel mentre ho cambiato calligrafia e fumo l'ultima Marlboro rossa, l'ultima perchè qui dove abito è tutto in controsenso. Apparte il mio Odio.
Bhe, fatto sta che il tabacchino cocainomane -pescelesso- che sta vicino casa mia ha cambiato il distributore delle paglie sovrapponendo l'evento al cambio dei cinque euri: quel cazzo di distributore prende solo i vecchi. In più ha aggiunto una macchinetta di schifezze varie della quale non ne capisco la reale utilità, se non quella di farmi ingrassare. Anche quella prende solo i vecchi, vecchi nottambuli malati di Alzheimer che popolano questo paesino.

Rimango in casa sveglia di notte fino alle 6 -aspettando- questo mese che dovrebbe passare. Poi scenderò a Roma Termini e Roma Delirio/litigi.
Mi salta in mente l'idea di propormi due passi alle 4.25, è notte appunto. Rimane un'ora e trentacinque minuti. Vorrei un bicchiere di buon San Giovese, il nostro vino! Terra.
Vorrei si materializzasse un finestrino e un'ambientazione sulle rotaie ora, per viaggiare sola dentro un'intera carrozza di un IC, ma farebbe ritardo lo stesso.
Accanto a me, giovedì, sedevano due ragazze che per far stare comode le loro borse vicino ai loro culi raccontavano, ai poveri disgraziati saliti per ultimi, che i posti non erano liberi causa amici immaginari che stavano arrivando. Simpatiche; ma il caldo il ciclo la voglia di leggere il mio libro la stanchezza e le loro voci che parlavano di "non far la trulla amore" improvvisavano uno schizofrenico balletto ai miei nervi sottili e stanchi. Campi di sterminio.

Ho nella soletta delle Vans Authentic black/black la voglia vera di andare e trovare.

domenica 9 giugno 2013

London

L'ora in cui i veri si incontrano.
Ora è freddo. L'umidità appiccica le mani.
Conto una sigaretta in meno ogni mezz'ora e sentire il ticchettìo dell'orologio.
Vorrei dirti che è il mio compleanno per ricevere quegli auguri. Magari mandare lettere.
Farmi due ore di aereo e arrivare a Londra. Ho scritto che mi sono svegliata e c'era la pioggia.
Una chitarra, filtri offuscati. Indie.
Scenero.
Io, che scrivo di momenti che non vengono, sono immobile ad aspettare, stupida.
Deve cambiare qualcosa. Lo sogni anche alla notte. Sogni la città. La pioggia. Quel cielo scuro e cupo di giorno.
Non vuoi il sole fuori, tua madre dice di andare.
Staccarmi da qui. Un po' vivermi. Un po' andare. Un po'..

venerdì 24 maggio 2013

Without Title

Pacchetti vuoti in diretta proporzione alle sigarette spente.
C'è aria di vechhio qui, quell'aria che senti quando passi davanti alle case che crollano giu.
Giubbotti sanno di muffa. Pied de poule.
I crontasti che non servono più a niente. Aspettare non è piu un passatempo carino.
Coincidenze e punti di non ritorno, cronicità.

Lei raccolse da terra la divisa d'ordinanza, le carte consumate di una missione fallita e lasciò cadere la sua ultima offerta in una valigia aperta ai piedi del letto.

lunedì 6 maggio 2013

xxxBlack

Ho ore di ghiaccio che si sciolgono sul pavimento, si fanno le 4 in un attimo e i denti perfetti sul muro bianco disegnato.
Marlboro finiscono, accorciano le loro vite in quel di un portacenere. Fuoco.
Aria, soffio e una nuvola grigia.
Musiche che crescono in notti d'ansia fisica, pesi che la gravità farà sentire di piu fra due ore.
E io contorno i pensieri con rollate di robe verdi.
Ho motivi ed ambienti nel divario fra vita e morte.
I mondi separati tra cui cado. Corde che non cadono, cappi che mi stringono.
Jeans neri stretti. Il mio momento è arrivato.

giovedì 4 aprile 2013

Otto parole.

Disattivo le bombe. 
Fuori è una pioggia. Dentro anche.
Ho quasi finito l'acqua.
La mia borsa si è ridotta a un sacchettino bianco con stampe di palme.
California.
E qui piove.
Qui stanotte siamo tutti giù, ci rispondiamo male. 
E che sta andando un tantino male lo indica l'orario.
Quando pensi sia finita comincia. 
Non credo ne uscirò sana e salva
già sto cercando di uscire da un portone senza aver chiavi.
Tiro pugni e dò manate ovunque. Disperazione.
Ridere. "E dalla tua camminata si direbbe tutto quello che hai concesso."
Ho delle figure. Ho delle figure in testa.
Ho nuovi modi. Ho figure disegnate. Oggetti fermi.
Ai principi nessuno dà peso, perchè? perchè è tutto inutile pensano.
Quindi cercano soluzioni. Le cerchiamo anzi.
Ma và così-dico. E finirà un giorno. 
Ma quel giorno qualcosa si sgretola, cancelliamo le mura. Ma servono.
La piazzetta è esplosa. Il mio eskimo è bucato. Pelo distrutto. Nero.
"Sai sentire o no cosa si prova?" "Io ti conosco da prima che arrivassi in questo posto."
 

martedì 2 aprile 2013

Chine.

A questo punto non dovevo arrivarci. Non dovevo tornarci.
Mentre ripasso un disegno mi si spezza la punta del  pennarello, china da 0.1
E io allora me ne sto qui. A parlare di me con me.
A pensare ai miei mesi con me.

Una macchina mi viene a prendere. Arriva nello stesso momento in cui io arrivo al punto d'incontro.
Zitta salgo, chiudo la portiera, con le mani nelle tasche del mio eskimo.
Terza e partiamo. Io guardo fuori un po' dal mio finestrino e un po' alla strada che proseguiamo, avanti a me.
Con gli occhi fluidi e indifferenti, continuo a guardare avanti. Mi mordo le labbra e tolgo le pellicine, me ne sto tutta composta, prassi. Dato che aspetto un gesto. Qualche mossa. Qualche movimento. Una parola.
I suoi discorsi sempre freddi e a bassa voce. Cose dette per farti smettere di star così.
Che io invece son diretta e mi dispiace, gli dico. Che nei mesi ci son cose che son rimaste, aggiungo.
E aggiungo anche che non può fermare la crescita dell'erba nonostante l'aver piantato un seme solo per sentirsi soddisfatto.
Voci calde. Entriamo.
Ci siamo messi d'accordo per chiarire alcune cose, e che a casa non saremmo riusciti, lo sappiamo troppo bene.
Mi dice che dobbiamo stare fermi che dobbiamo staccare e aspettare che qualcosa sbuchi fuori di nuovo, perchè-aggiunge-che abbiamo bisogno di spazi nonostante il nostro tipo di relazione,  ma che qualcosa tornerà di sicuro.
Così continua a parlare in modo molto tecnico, come se fossimo a una riunione d'equipe di un'azienda. Fa degli elenchi e indica punti a caso sul tavolo di legno.
Io ho poche cose da dire invece. Però sto zitta.
Vorrei che qualcosa lo ammettessimo. Che ci svelassimo qualcosa dopo tanto tempo.
E quindi tutto finisce, la birra nella tazza di ceramica finisce, la sua pinta pure, il pub chiude e io torno a casa a piedi.
Con le mani nelle tasche del mio eskimo. Cammino e sta notte sto con Ravenna e il mio freddo.
Una pizza baby in un posto ancora aperto e mi siedo; anche perchè la vans sono un po' scomode dopo un po'.
Lui andrà a ballare sorridente, un sorriso vero. 
Ora il tempo è deserto, ma su facebook arriva un messaggio.

























giovedì 28 marzo 2013

Pelle vecchia.

E poi si scriveva tutto. Avrebbe scritto anche sull'aria.
I miei incontri. Le mie parole agli altri. Aveva scritto le birre che ci eravamo bevuti.
E sapeva tutte le volte che lo pensavo. Lo sapeva e basta. Perchè eravamo lì apposta.
Noi due.

Ora c'è una berretta un disegno dei pennarelli e il freddo che bho, lo uccideresti se fosse vivo.
Le bottigliette in vetro stese sul dorso a caso nella scrivania. Vetro e vetro. Tu leggi sempre.
Cazzate e cazzate. Io disegno tu guardi. Non ho niente da vivere.

Il vento le onde la musica
Le medicine il male le luci offuscate
Il trucco le berrette un parka
Verde marrone nero.
I tatuaggi da ripassare l'amore da fare un letto da buttare via
Odori noie e paura
Sentimenti, segreti e fidanzamenti
Odori mani e occhi.
Dolore.
Lì.

Tu non vieni piu qui. Io qui ci sono sempre. I bicchieri pieni di matite. I bicchieri pieni di penne. I bicchieri pieni di pennelli. I bicchieri cadono sempre. E per quanto spazio ci sia io faccio cadere tutto.
SCRUASHR - Almeno non è caduta l'acqua.
Ci sono delle cose. Quali cose? Cose che erano tra di noi.
Ma i cassonetti della spazzatura erano lì da poco e quando c'è qualcosa di nuovo non si vede l'ora di testare, ci abbiamo messo zero secondi per farlo.
Tanti anni messi insieme per niente. In un pomeriggio abbiamo messo insieme tutto, abbiamo spinto con il piede e lanciato col braccio. Arrecher de Laine.
Un parco. Un video. Foto. Qualcosa da bere. Era la giornata perfetta.
Perfetta quanto noi. Perfetta per  finire. Diamine.
Un milkshake, dolore la rabbia, un antipsicotico e un po' di fragola.
Addio.


martedì 12 marzo 2013

Mi piacerebbe ogni tanto averti qui.

I pugni han trovato luogo. Il mio stomaco è una casa.
Vorrei poterti sbattere la canzone in faccia e dirti "Ora basta, per favore, sto male.".
Così poi andarmene, occhi giganti e palpebre strettissime. Lacrime così liquide e pensieri così duri.
Oggi è una giornata strana. 
Tu te ne sei andato docile dalle mie braccia.
Non hai cullato niente. T'avrei comprato il mondo. Ti comprerei me se nessuno ti facesse un regalo, ma ti comprerei me in ogni caso.

Modi per comunicarti questo che è. 

Avrei notti da mostrarti. 
Gallerie di quadri rubati, indagini aperte e mai portate a fine, nel modo giusto.
I muri vuoti, pareti bianche, noi al centro. 

Ti scrivo lettere, aperte a chi può pensare. E tu so ne sei capace. So che tu se ci mettessi l'impegno capiresti.
Tu ti tufferesti. Sei un delfino. Devi scoprire solo di aver il sorriso. Quello apposta per me.

Ma comunque non riesco a dirlo, non so rinunciare a te, che ti dai per quel che puoi. O forse sono io che non saprei ospitare, nel modo a te sognato, i desideri e i tuoi occhi, forse le tue mani grandi. 
Letti distrutti.
L'effetto svanisce e tu non sai quale effetto. Non sai quali Otto ore passo. Spazzo via le mie voglie. Le butto nel cassonetto del vetro. Un rumore agghiacciante arriva, lo sento a rallentatore, ed io chiudo gli occhi. Raccolta differenziata. 
Lascio cadere la gravità dalla punta delle mie dita. L'acqua in una vasca. E' congelata.

domenica 3 marzo 2013

Fuori porte.

Mi fa male il cuore e ascolto una musica che mi piace. Sono a un concerto. Dopo ballo.
Chiudo gli occhi. Stesa al letto. Una visuale di stropiccio nero e bianco a frasi, sfanalante. Psichedelico. Luci stroboscopiche. Stile. Questo.
Domani.
Sono in centro ora. Davanti ho una porta che apre al vino all'alcool e a risate che io non riesco ad aprire. Qualcuno passa. Ma è deserto. Non so cosa mi rimane. Non so quanto freddo ancora c'è da accogliere. Di certo per il caldo posto non ce n'è. Un nero d'avola schifoso e 6 mozzarelline impanate. 6 tristezze. Sigarette. Troppo caldo. "Davvero?" Voglio vedere cosa succede. C'è qualcuno davanti a me. 4 persone. Che minchia mi guarda questa? Galleggia con le labbra. Buona serata.

martedì 5 febbraio 2013

Parla.

Poi tanto arriva lei. Con i polmoni fra le mani e ti dice "accompagnami a raccogliere i petardi non esplosi".
Prendiamo un treno. Freccia rossa, noi con degli stracci addosso, zaini mezzi aperti e scarpe distrutte.
Andiamo a raccogliere petardi non esplosi. Per le vie dei parchi che non hanno aperto. Campi.
Coi tatuaggi sulla nuca e il male alla cervicale. Al mezzo della schiena una sciabola che sminuzza le vertebre.
Saliamo. Prendiamo i nostri posti. Con gli organi ancora in mano e la gente schifata che guarda. Noi non parliamo. Valentina mi chiede se posso tenerle un attimo quei polmoni neri, deve prendere il telefono dallo zaino.
Scopre che gliel'hanno rubato. Pronto le offro di prestarle il mio. Non ho mai saputo parlare decentemente. Sempre col tono basso e lo sguardo vuoto. Come se io sapessi tutto. Io so tutto.
Allora il treno parte. 3 ore e 50 minuti a Firenze. Arriveremo che sarà sera. Saranno le 22.50.
E noi due soli attraversiamo la piazza. Noi con degli stracci addosso, zaini mezzi aperti e scarpe distrutte. Andiamo a racogliere petardi non esplosi.
Siamo arrivati. Durante quelle quasi 4 ore siamo rimasti sempre in silenzio lanciando corde agli sguardi stanchi e schifati che guardavano noi e i polmoni neri che lei teneva in mano e sulle cosce.
Scendo e un probabile affarista o piazzista da Milano mi si scaglia contro, cado.
Valentina lascia cadere in 1/4 di secondo quei due polmoni neri per terra e uno finisce fra le rotaie e la banchina del binario. La vedo abbassarsi a me e tirarmi sù. Ma la mia gamba fragile non ha retto. Mi alzo e le dico dei polmoni. Che li ho visti. E lei in una doppia ansia. Il suo viso sbianca. Le mani tese, le vedo le ossa.
Raccoglie un solo polmone, quello recuperabile. L'altro lo lasciamo lì.
Sento per la terza volta in 8 anni la sua voce, due volte in una giornata. Questa volta dirmi "basterà un solo polmone, non importa". Io le sorrido.
Un'ora. Abbiamo raggiunto il parco. Scavalchiamo facendo attenzione al polmone.
Mi guarda. Io capisco tutto subito.
E così partiamo. Noi con degli stracci addosso, zaini mezzi aperti e scarpe distrutte.
Andiamo a raccogliere petardi non esplosi.

lunedì 28 gennaio 2013

i Frutti Rossi di Micol.

C'erano delle cose da fare, da sbrigare. Di tempo ce n'era veramente poco e io avevo fretta. Così saltavo ogni terapia ogni abitudine e ogni cosa di routine che per una persona normale è d'abitudine eseguire.
Era un continuo appiccicarsi dello scotch addosso e lasciare che tutto si appiccicasse sopra.
Mi scordavo anche di mangiare. Di mettere il tappo all'obiettivo della macchina fotografica. Nessuno si accorgeva di quanto fossi io, di quanto quel che vivessi fosse attaccato a me e di quanto quel che non volevo raccontare fosse tanto segreto, buio e pauroso.

In ogni caso il pavimento era da spazzare.


sabato 19 gennaio 2013

Thè verde.

La posizione verticale di una sfera.
Il centro dello spazio. L’area di un segmento. Coglimi. Il tempo sta già lavorando sugl’ingranaggi. Oggi. Ora. Dopo. Domani. Fra 4 mesi e mezzo. Continueremo ad essere su un letto. A muoverci sul pavimento, bavosi e orridi esseri umani. Così sicuri che perdere sangue sia grave, che fretta di non perdere la vita, avviati tutti i giorni verso una morte. Collettiva e non. Solo prenderci le mani. Guardarci negli occhi, mentre accarezzi le gambe. Vorrei pregare piangendo, a qualcuno di restare. Vorrei poter stare male per qualcuno che mi desidera ogni giorno, che mi pensa mentre sta guardando l’angolo di una finestra. Mentre il freddo gli congela le nocche. Vorrei crescere sulla schiena di un ragazzo che diventi uomo ma che sappia essere ragazzo. (Tutto questo da Micol. 17enne al thè verde. All’italiana. Perfetta stupida, essere umano di sesso femminile. Aggiorna. Non crea, pensa ai gesti-agli altri. Non in senso altruista.) Senza dirci niente, nemmeno essere uniti pubblicamente. Bisogna saperlo già da sè. Bisogna sapere tutto. Bisogna sapere niente. Quando le mani si aggrovigliano, quando ci si schiaffeggia da soli alle 4.37 di un giovedì notte, mentre mi faccio venire/sopportare il prurito, divento rossa e piena ai graffi per te. E vorrei che leggessi almeno una volta. Vorrei che abbracciassi qualche cosa. Altéro. Supèrficie. Che stai in superfìcie e la tua orca gonfiabile è il tuo orgoglio: magari da piccolo ti piaceva tanto stare in mezzo al mare con animali gonfiabili e ora invece hai la pelle al latte. Ora hai foto scattate. Ora hai la pelle bianca e un viso orridamente angelico e puro. Muoio dalla voglia di urlartici contro che devi essere non questo. Mi godo le 2.32 di questa notte, in cui figure sfuggite corrono dietro la luce, nello spazio del corridoio, dato fuori alla porta della mia stanza. N°3. Descrizioni? Racconti di notti post-scambiste.
Falsi. Autentici.

Colibrì. 19 giorni di gennaio, le 16.43.  Ragazza al thè verde.
Pioggia.
Nausea.

venerdì 11 gennaio 2013

AMORINO.


Isabella Santacroce. La vergine e il demonio. "In questa stanza guardo la finestra quasi fosse un volto, mentre Albertina continua a suonare supplicando la Vergine Maria di soccorrerla. Se solo. Quante volte dico se solo. Se solo. Se solo io fossi un'altra, nessuno, forse non mi divorerebbero i sensi di colpa. Se solo potessi dimenticare chi divento quando la luce finisce, se solo non arrivasse la notte.
Straziata dal buio, sporcata e derisa, divelta.
Mi chiedo com'è successo, l'unica cosa che so è che sono stata una bambina che un giorno è scomparsa.
Se solo non esistesse il dolore che provo, la pena, la rabbia, e quel desiderio di amore, infinito.
Se solo avessi il coraggio di uccidermi, fermarmi, non andare più incontro al terrore, a quel baratro che sempre mi attende, mi chiama, si apre.
Ancora poche ore e poi di me cosa rimane: un eco sottile, un'estranea.
Mi dico, Annetta resisti, non entrare nel male, chiudi le orecchie quando ti chiamano i demoni, fai finta di niente, stai ferma.
Anche stamattina ho provato, mi sono distesa fissando il crocifisso davanti. Niente di me si muoveva, lottavo. Dicevo: quando riuscirò a stare immobile di modo perfetto nessuno potrà piu fermarmi."

Ancora poche ore e poi di me cosa rimane: un eco sottile, un'estranea.
A cosa pensi?
Chi chiamerai domani mattina?
Chi penserai appena aprirai gli occhi, a quale cosa precipiterai l'insopportabile peso della responsabilità alla propria massa.
Cosa ti sta per cadere addosso?
Quale cappio sta per strignermi la gola?
Quella corda di che materiale è fatta? E' grossa, è piu sottile? Cosa costringe la gravità a tirarmi giu, se mi uccido non sono io che lo faccio, è un omicidio: la gravità l'assassina.
E che ingegneria. Facoltà dei più complessi. Neuroni.
Psiche. Psycho. Psychotic. Mi salta addosso ed entra. Non sono più io ora... 
Ciao Isabella.